“Ho avuto l’occasione, preparando i miei corsi sugli organi di senso di fare un’invenzione che potrebbe essere di reale utilità per il trattamento delle affezioni oculari. Questa invenzione era veramente a portata di mano, non esigendo altre conoscenze che quelle acquisite al ginnasio, e io trovo ora quasi da ridere sul fatto che tutti, me compreso, avessimo la mente così offuscata da non capirci nulla. Si tratta di una combinazione di vetri che permette di illuminare attraverso la pupilla il fondo oscuro dell’occhio e di vedere così tutti i dettagli della retina … ingrandita venti volte come se la si guardasse con una lente di ingrandimento. Si vedono le arterie, le vene e l’entrata nell’occhio del nervo ottico … Ho presentato l’invenzione alla Società di Fisica di Berlino come un uovo di Colombo da manipolare con prudenza, e ho fatto riconoscere i miei diritti su di essa”.
Queste parole sono tratte da un lettera scritta poco prima del Natale del 1850 da Hermann Helmholtz (Fig. 1), da poco professore di Fisiologia a Königsberg, al padre August Ferdinand insegnante nel ginnasio di Potsdam, la città dove Hermann era nato nel 1821. Lo strumento di cui si parla, e che Hermann ha da poco inventato, è l’oftalmoscopio, un dispositivo che viene presentato come estremamente semplice sia dal punto di vista concettuale che costruttivo (“una combinazione di vetri” si dice), ma che ben presto rivelerà la sua eccezionale importanza e utilità nella pratica medica, e non soltanto nel trattamento delle affezioni oculari. Questo era destinato ad accadere perché, permettendo una visualizzazione estremamente nitida del fondo dell’occhio, lo strumento inventato da Helmholtz apriva una finestra di osservazione utile per la diagnosi di patologie sia dell’occhio che del sistema nervoso centrale. La retina, la membrana visiva che tappezza il fondo dell’occhio è infatti dal punto di vista embriogenetico una estroflessione del sistema nervoso centrale (essa si sviluppa da un diverticolo dell’encefalo): il suo aspetto, con la macula al centro, e un po’ a lato la papilla del nervo ottico, i vasi sanguigni che si ramificano sulla sua superficie interna (o vitreale) offrono, con l’ausilio di questo semplice strumento, la visione diretta di una struttura nervosa vicina al nostro cervello e permettono quindi di valutarne le condizioni funzionali cogliendo l’eventuale presenza di situazioni patologiche di interesse neurologico e neurochirurgico (oltre che ovviamente oftalmologico).
Nella lettera al padre Helmholtz sottolineava la semplicità e quasi ovvietà della scoperta, alla portata di uno studente liceale, un vero uovo di Colombo.
Ma era proprio così? Era proprio così semplice inventare questo strumento? Proviamo a rispondere a questa domanda. Teoricamente è semplice osservare il fondo dell’occhio. Non così facile però che per farlo basti dirigere lo sguardo verso quella “finestra” che almeno in linea di principio dovrebbe permetterci di accedere visivamente all’interno del globo oculare, la pupilla. Se infatti ci sforziamo di guardare nell’occhio di una persona che ci sta dinanzi non riusciamo a vedere all’interno della pupilla nient’altro che un disco scuro. Nulla ci appare delle formazioni presenti nel fondo oculare, né papilla ottica, né vasi retinici, né macula. Questo avviene perché, sebbene in linea di principio noi dovremmo essere in grado di vedere il fondo dell’occhio a causa della trasparenza dei mezzi oculari dell’occhio osservato (cornea, umor acqueo, cristallino, umor vitreo), di fatto non riusciamo nell’intento perché in condizioni normali non entra nell’occhio osservato abbastanza luce da renderne visibili in dettaglio le strutture interne.
Non è però per nulla agevole illuminare con una fonte luminosa esterna l’interno dell’occhio perché, per penetrare efficacemente all’interno dell’occhio osservato, la luce dovrebbe seguire lo stesso percorso dello sguardo dell’osservatore. E questo non sembra a prima vista possibile: non sembra cioè possibile che in uno stesso luogo siano collocati al tempo stesso la fonte di luce e l’occhio dell’osservatore in modo che i raggi dell’illuminazione e quelli dello sguardo dell’osservatore possano seguire lo stesso percorso. In altre parole la testa dell’osservatore e la fonte luminosa si intralcerebbero a vicenda rendendo impossibile la visualizzazione del fondo dell’occhio osservato.
Ma qui è proprio l’uovo di Colombo di tutta la faccenda. Il problema può essere risolto (e Helmholtz lo fece agevolmente sulla base delle sue conoscenze di ottica) facendo uso di uno speciale vetro semitrasparente, in grado di far passare una parte dei raggi dei raggi incidenti e di rifletterne altri (vedi Fig. 2 A) Con questo dispositivo si aggira la difficoltà costituita dall’intralcio reciproco tra osservatore e fonte luminosa e si rendono paralleli e coassiali i raggi della luce illuminante e la direzione dello sguardo dell’osservatore. Se questa fu la mossa vincente dell’invenzione, Helmholtz andò oltre rendendo lo strumento molto efficace nelle sue prestazioni e agevole nell’uso. Innanzitutto, rendendosi conto del fatto che era difficile per l’osservatore mettere a fuoco il fondo dell’occhio da osservare (tra l’altro anche per gli sforzi di accomodazione di quest’ultimo), egli fece uso di lenti opportune: nel modello finale dello strumento da lui messo a punto, lenti di diverso potere ottico sono montate su un disco ruotante e l’osservatore può scegliere la più adatta in funzione delle caratteristiche ottiche sia del suo occhio che dell’occhio da osservare.
Era così nato l’oftalmoscopio moderno che differiva da quello in uso ai giorni nostri solo perché questo incorpora in forma compatta anche la sorgente di luce. (Fig. 2 B). Uno strumento che da allora avrebbe permesso una visualizzazione straordinariamente nitida del fondo oculare con i vasi retinici, la papilla del nervo ottico, la macula (Fig. 3) divenendo così un ausilio fondamentale per la diagnosi delle malattie dell’occhio e anche, come si è detto, di patologie cerebrali o di altra natura (per esempio delle gravi forme di aumento della pressione arteriosa che portano a tipiche modificazioni dell’aspetto della retina).
La “pre-istoria” di un’invenzione
Vista la semplicità dell’invenzione ci si può chiedere se qualcuno avesse tentato di osservare il fondo dell’occhio prima di Helmholtz. Nel mondo antico esisteva la credenza che l’occhio possedesse una sorgente di luce al suo interno, e su questa base erano state elaborate teorie della visione che erano sopravvissute in varia forma fino al Settecento (anche il poeta Goethe che molto si interessò alla visione dei colori aderiva a una concezione di questo genere). Tra gli argomenti invocati a sostegno della luce interna dell’occhio era la brillantezza che appare nell’occhio del gatto o di altri animali quando al buio sono colpiti da un fascio di luce.
Dunque almeno in alcuni animali il fondo dell’occhio era visibile, anche se alcuni decenni prima dell’invenzione di Helmholtz era stata sfatata l’idea che l’occhio dei mammiferi brillasse nella notte di luce propria. Era stato Isac Bénédict Prévost, uno studioso di origine svizzera che insegnava a Montauban, una cittadina dei Pirenei Francesi, a dimostrare nel 1810 l’infondatezza dell’opinione. Il fondo dell’occhio del gatto e di altri animali diventava infatti del tutto invisibile se veniva osservato nell’oscurità completa1. In epoca più vicina a Helmholtz, la dimostrazione dell’esistenza di strutture riflettenti nel fondo dell’occhio di diversi animali aveva portato alcuni studiosi a cercare di guardare il fondo dell’occhio umano. I tentativi compiuti quasi contemporaneamente dall’inglese William Cumming e dal tedesco Erst von Brücke, collega e amico di Helmholtz, erano stati però infruttuosi (a causa delle difficoltà di illuminazione da noi discusse).
Più riuscito, ma senza però seguito, era stato un tentativo compiuto nel 1847 da Charles Babbage, un matematico inglese il cui nome è associato all’invenzione di un importante precursore dei moderni calcolatori digitali). Afflitto da un difetto di visione, Babbage cercò di mettere a punto un metodo di osservazione dell’occhio nell’intento poi di usarlo per vedere all’interno del proprio occhio. Rendendosi conto della necessità di disporre di una fonte luminosa coassiale allo sguardo dell’osservatore, egli fece ricorso a uno specchio con un foro al centro (analogo a quello usato ai giorni nostri dagli otorinolaringoiatri) e riuscì in effetti a osservare il fondo dell’occhio. Nel suo caso però le immagini erano di solito poco nitide (forse perché egli non fece subito ricorso come Helmholtz a lenti addizionali per la corretta messa a fuoco) e i suoi tentativi rimasero quindi sterili e non diedero luogo ad alcuna vera invenzione.
All’epoca della lettera al padre sull’invenzione del suo oftalmoscopio, Helmholtz aveva solo 29 anni ma aveva già al suo attivo degli straordinari successi scientifici: nel 1847 (cioè a soli 26 anni), mentre era convalescente di tifo all’ospedale, allo scopo di rendere conto dei risultati di alcuni suoi esperimenti sulla contrazione muscolare, aveva elaborato il secondo principio della termodinamica; nel 1849 aveva misurato la velocità di conduzione del nervo; e poi, riprendendo un’ipotesi formulata nel 1801 dal medico e fisico inglese Thomas Young, aveva elaborato la teoria tricromatica della visione (cioè la teoria secondo la quale la nostra visione è basata su tre pigmenti sensibili rispettivamente alla luce rossa, verde e blu – teoria di Young-Helmholtz).
Con l’invenzione dell’oftalmoscopio il giovane studioso, destinato a diventare uno dei più grandi scienziati dell’Ottocento (pur essendo laureto in medicina, concluderà la sua carriera accademica come professore di fisica all’Università di Berlino), poté aggiungere alle sue tante scoperte tra fisica e fisiologia anche l’invenzione di questo strumento dalle prestazioni così straordinarie ma in apparenza semplice da concepire: proprio come un uovo di Colombo.
Note:
1.Nel fare questi esperimenti Prévost aveva seguito un metodo analogo a quello che, per gli imprevedibili sentieri della scienza, aveva portato il grande naturalista italiano Lazzaro Spallanzani a scoprire il senso particolare che permette ai pipistrelli di volare in ambienti bui senza urtare contro gli ostacoli. Nei suoi studi condotti a partire dal 1793 Spallanzani voleva verificare la credenza secondo cui molti animali, e in particolari gli uccelli notturni, sono capaci di vedere al buio. In una soffitta completamente oscurata e nella quale aveva collocato numerosi ostacoli, egli aveva potuto dimostrare che, a differenza di quanto si credeva, civette e altri uccelli notturni erano del tutto incapaci di volare e di orientarsi. Nelle stesse condizioni invece i pipistrelli continuavano a volare senza urtare gli ostacoli. Attraverso poi una serie accurata di altri studi lo studioso italiano era riuscito a stabilire che questa speciale dote dei pipistrelli, che non aveva nulla a che fare con la vista, era invece in relazione con il senso acustico (la capacità di orientarsi scompariva in animali nei quali erano stati ostruiti i condotti uditivi). Oggi noi sappiamo che alla base dello straordinario potere di questi animali notturni vi è un meccanismo di ecolocazione, una specie di radar acustico che dipende dall’emissione e ricezione di ultrasuoni (qualcosa di analogo a quello che nella moderna diagnostica medica è alla base dell’ecografia).