Evocando in modo virtuale la possibilità del tutto immaginaria di un Galileo moderno che contempla le immagini di Churyumov-Gerasimenko, la cometa immortalata da Philae (la sonda della missione Rosetta), potremmo con ragionevole sicurezza ritenere che egli non proverebbe gran meraviglia nell’apprendere che il nucleo di Churyumov-Gerasimenko è più scuro del carbone, a dispetto del fulgore della cometa (almeno nelle immagini telescopiche). Questo perché Galileo sapeva bene che un corpo apparentemente scuro può – in certe condizioni – apparire molto luminoso (e sapeva altrettanto bene che un corpo molto luminoso può, al converso, sembrare scuro). In effetti fu proprio la sua straordinaria capacità di interpretare le immagini telescopiche in modo “fisicamente” corretto, al di là dell’immediata apparenza sensoriale, a contribuire in modo importante alla rivoluzione astronomica dello scienziato pisano, che fu anche, in ampia misura, una rivoluzione sensoriale.
È soprattutto nell’ambito di una polemica con un gesuita tedesco, Christoph Scheiner, che emerge in modo significativo questa capacità di Galileo di “vedere” oltre gli immediati dati dei sensi per svelare gli aspetti profondi della costituzione del mondo. La discussione con Scheiner, che si sviluppò pochi anni dopo le prime osservazioni telescopiche dello scienziato pisano, riguardava la natura delle “macchie solari”, cioè le zone scure del disco solare che, per la loro apparenza e mutabilità, sembravano mettere in crisi la concezione aristotelica della perfezione e immutabilità dei corpi celesti, caposaldo fondamentale della cosmologia tradizionale.
All’affermazione di Scheiner: “Nel Sole, che è un corpo splendidissismo, porre delle macchie, e addirittura molto più nere di quelle che si sian mai viste sulla luna […] mi è sembrato sempre fuor di proposito, e neppure in verità verosimile”, Galileo rispondeva, in modo apparentemente provocatorio: “quello che vien […] in questo luogo detto, cioè, che le macchie apparenti nel Sole siano molto più negre di quelle che mai si siano vedute nella Luna, credo che assolutamente sia falso; anzi stimo, che le macchie vedute nel Sole siano non solamente meno oscure delle macchie tenebrose, che nella Luna si scorgono, mà che le siano non meno lucide delle più luminose parti della Luna, quand’anche il Sole più direttamente l’illustra”. Egli diceva cioè che le macchie nere del sole, a dispetto della loro apparenza scura, sono più brillanti delle zone luminose del corpo lunare, persino nelle condizioni in cui la luna è più intensamente illuminata dai raggi solari. L’errore del Gesuita, come poi Galileo svelava con argute argomentazioni, è di aver confrontato i due oggetti visivi (macchie solari e corpo della luna) in condizioni di osservazione molto diverse; le prime sullo sfondo luminosissimo del disco solare, la luna invece sullo sfondo nero del cielo notturno, non rendendosi conto che la luminosità percepita di un oggetto visivo cambia in modo drastico al mutare del background sul quale è osservata (lo stesso oggetto potendo apparire chiaro o scuro a seconda dello sfondo, come è illustrato dal confronto della luminosità apparente del quadrato centrale nelle due immagini della Fig. 1).
Galileo sa bene che, per stabilire un confronto “psicofisicamente” corretto tra due oggetti visivi, bisogna osservarli entrambi su sfondi di intensità luminosa comparabile. Sorgono però difficoltà apparentemente insormontabili nel tentativo di confrontare in questo modo le macchie solari e il corpo della luna. Quando infatti la luna si avvicina al sole essa passa, per motivi astronomici, nella fase di luna nuova e scompare quindi dalla vista per ragioni che non dipendono dal rapporto visivo figura-sfondo. Nella sua polemica con Scheiner, Galileo riesce ad elaborare questo confronto impossibile ricorrendo ad un esperimento mentale basato sul ricorso ad un elemento intermedio di comparazione, Venere, che il più luminoso dei pianeti, dotato di un fulgore anche maggiore di quello della luna. Quando Venere si avvicina al sole – nota lo scienziato pisano – essa diviene invisibile perché la sua luminosità è inferiore a quella del campo luminoso che circonda il sole. La luna (che è meno brillante di Venere) non sarebbe dunque visibile se la si potesse rimirare in prossimità del Sole (cioè quando fosse situata in questa campo luminoso). A dispetto del suo fulgore (ben superiore a quello di Venere e della luna), il campo circumsolare è meno luminoso delle macchie solari, come si può facilmente notare mirando il Sole con un filtro abbastanza scuro da permettere l’osservazione diretta, oppure proiettando con un telescopio l’immagine su una carta (come faceva già Galileo utilizzando un metodo messo a punto da un suo allievo, Benedetto Castelli). In queste circostanze il campo circumsolare appare infatti totalmente scuro, a dispetto della sua enorme luminosità fisica (vedere la Fig. 2).
Da tutto questo Galileo può, contro le asserzioni di Scheiner, giustamente concludere che le macchie osservate sul sole, sebbene scure di apparenza nelle condizioni di normale osservazione di questi fenomeni, sono “non meno lucide delle più luminose parti della Luna”.
Nel corso della polemica con il gesuita, Galileo affronta un altro aspetto della visibilità dei corpi celesti dal quale emerge la sua chiara consapevolezza del fatto che, come un corpo intrinsecamente luminoso può apparire scuro (è il caso delle macchie solari), analogamente un corpo intrinsecamente scuro può essere percepito come brillante. Il problema si pone nell’ambito della discussione del meccanismo che è alla base della riflessione della luce solare da parte della luna. Secondo la cosmologia tradizionale la luna brilla nel cielo perché, a differenza della terra (e come gli altri corpi celesti) riflette la luce solare come uno specchio perfetto, una caratteristica che dipendeva dalla materia di cui si supponeva fosse costituiti (l’etere o “quinta essenza”), e dalla assoluta levigatura della sua superficie. In questa prospettiva la terra, con le sue irregolarità e con natura imperfetta della sua composizione, sarebbe stata incapace di riflessione e dunque oscura. Con una serie di brillanti argomentazioni (e di reali esperimenti), le cui conclusioni appaiono a prima vista di nuovo paradossali, lo scienziato pisano dimostra che un corpo scabro (come è la terra, e come è anche la luna secondo le sue osservazioni telescopiche) è in grado di riflettere efficacemente la luce. Lo fa secondo il meccanismo di “riflessione diffusa”, caratteristico delle superfici irregolari (che possono essere assimilate ad una miriade di piccoli specchi orientati nelle varie direzioni dello spazio). La luna riflette e brilla nel cielo proprio perché la sua superficie è scabra come quella della terra; e la presunta brillantezza del corpo lunare è solo un effetto illusivo dovuto al fatto che possiamo osservarlo, illuminato dai raggi solari, contro lo sfondo nero del cielo notturno (Fig. 3).
Se ci fosse data la libertà poetica di evocare un Galileo moderno che contemplasse le immagini trasmesseci da Philae, potremmo con ragionevole sicurezza ritenere che egli non proverebbe dunque gran meraviglia nell’apprendere che il nucleo di Churyumov-Gerasimenko è più scuro del carbone, a dispetto del fulgore apparente della comete. Questo perché egli sapeva bene, come abbiamo messo in evidenza finora, che un corpo intrinsecamente scuro può – in certe condizioni – apparire molto luminoso (e sapeva altrettanto bene che un corpo molto luminoso può, al converso, sembrare scuro). In effetti fu proprio la straordinaria capacità di Galileo nell’interpretare le immagini telescopiche in modo “fisicamente” corretto, al di là dell’immediata apparenza sensoriale, a contribuire in modo importante alla rivoluzione astronomica dello scienziato pisano, che fu anche, in ampia misura, una rivoluzione sensoriale (si veda Piccolino e Wade, 2014).
Tornando alla luna che brilla di notte per effetto del contrasto visivo, Galileo sapeva anche bene che se, dagli spazi planetari, avessimo potuto rimirare la terra illuminata dal sole contro l’oscurità del cielo notturno, essa ci sarebbe apparsa almeno altrettanto luminosa della luna. E che, come il nostro satellite rende meno buie le nostre notti nella fasi di luna piena, la terra è a sua volta in grado di illuminare la parte oscura della luna (Fig. 4).
Con uno straordinario esperimento mentale (sul quale avremo forse modo di soffermarci in una prossima occasione), descritto nel 1640 (quando egli era ormai diventato quasi completamente cieco), Galileo dimostra che la luce visibile nella parte oscura della luna, sebbene debole, è in realtà più intensa della luce che la terra riceve dalla luna nelle notte di luna piena.
La dimostrazione che la luna e la terra si illuminano a vicenda, riflettendo la luce solare secondo gli stessi meccanismi fisici, contribuiva in modo importante (insieme ad altre fondamentali scoperte astronomiche galileiane) ad abolire la differenza essenziale che, nella cosmologia tradizionale, esisteva tra terra e cielo (“Galileo abolì i cieli”, dice Brecht).
Lo scienziato pisano rendeva così il cielo più familiare, iniziando un lungo cammino di scoperta che avrebbe visto tra l’altro, nei giorni scorsi, un piccolo robot lasciare la navicella che l’aveva portato per anni attraverso gli spazi planetari, e infine, con qualche esitazione, ancorarsi alla scura superficie della cometa Churyumov-Gerasimenko per trasmetterci immagini e dati che forse ci diranno qualcosa di importante sull’origine del nostro mondo.