“Le cose in movimento più presto catturano l’occhio, di ciò che non si agita.”
Queste sono le parole che nel Troilo e Cressida di Shakespeare Ulisse rivolge ad Achille per indurlo ad uscire dallo stato di inazione in cui si trova e guadagnarsi la fama e la venerazione dei Greci. Achille, travestito da fanciulla, era nascosto a Sciro tra le ancelle del re Nicomede, mentre a Troia infuriava l’epica battaglia con grave pericolo delle armate greche. Aveva così voluto sua madre, la dea Teti, per preservare dalla morte il giovane, che, posto dal Fato dinanzi a una possibilità di scelta, aveva optato per una vita breve ma gloriosa, invece che lunga ma senza fama.
Nella metafora usata da Ulisse per convincere Achille a lasciare il rifugio sicuro e a combattere con gli altri greci, assumendo il ruolo d’eroe a cui il Fato lo chiama, c’è il riferimento alla nostra comune esperienza della maggiore visibilità degli oggetti in movimento rispetto agli oggetti immobili. E’ per questo infatti che muoviamo le braccia quando vogliamo richiamare su di noi l’attenzione. E’ per lo stesso motivo che, al contrario, nel bosco, i cacciatori stanno immobili scrutando indizi di movimento quando vogliono scovare una preda senza essere da essa avvistati.
Abbiamo detto “visibilità”, ma si potrebbe forse pensare piuttosto a un fenomeno psicologico legato ai meccanismi dell’attenzione (la quale di certo viene risvegliata di più da oggetti in movimento) che di una vera e propria maggiore visibilità dell’oggetto che si muove rispetto a quello che sta fermo. È invece proprio di un fenomeno di sensibilità visiva che si tratta; e anzi, le cose sono tali che gli oggetti perfettamente immobili non solo sono meno visibili di quelli in movimento, ma sono in realtà del tutto invisibili. L’affermazione può sembrare paradossale e molti di noi avranno difficoltà a prenderla per denaro sonante. Se fosse vera, si dirà, dovrebbe accadere che quello che mi sta ora dinanzi sullo schermo del computer dovrebbe in poco tempo scomparire se io avessi lo sguardo completamente fisso, in modo tale che la sua immagine sulla mia retina fosse del tutto immobile. Paradossalmente è proprio così, per sorprendente che sia la cosa (ma, come ci ricordava quattro secoli fa il grande Galileo, la verità scientifica è molto spesso sorprendente e non di rado va contro il senso comune, il “comun sentimento”).
Se, osservando una qualsiasi scena visiva, noi riuscissimo a tenere davvero lo sguardo completamente fisso in modo tale che l’immagine risultante fosse del tutto immobile sul fondo della retina, allora la scena sparirebbe magicamente dalla nostra vista. Se così non accade di solito è solo perché – per quanti sforzi facciamo di tenere la testa e l’occhio completamente immobili- l’immagine retinica è agitata da un continuo tremolio dovuto alla presenza di piccoli movimenti involontari dell’occhio (il cosiddetto “micronistagmo”) che impediscono la completa fissità dell’immagine sul fondo dell’occhio. Il micronistagmo non può essere annullato o controllato; è però possibile, con una sofisticata apparecchiatura (basata sull’uso di lenti a contatto riflettenti), fare apparire su uno schermo immagini che si muovono esattamente come si muove l’occhio. In queste condizioni dopo pochissimo tempo il pattern visivo osservato (e completamente immobile nella sua immagine sulla retina) scompare completamente dalla vista.
L’esperimento richiede – come si è detto – sofisticate apparecchiature e non può essere realizzato nelle circostanze della vita quotidiana. È però possibile far ricorso a esperimenti più semplici, ma non meno suggestivi, che ci confermano la validità dell’affermazione: “è invisibile ciò che produce un’immagine completamente immobile sulla nostra retina”.
Il primo dei due esperimenti che proponiamo è basato sul fatto che i movimenti alla base del micronistagmo sono estremamente minuti (dell’ordine della sessantesima parte di un grado) e quindi provocano movimenti abbastanza piccoli dell’immagine retinica. Se (come accade per il pattern mostrato nella Fig. 1) l’immagine è molto sfumata, con transizioni molto graduali di luminosità, allora il micronistagmo non provocherà a livello della retina movimenti tali da cambiare apprezzabilmente la stimolazione dei fotorecettori. Osservando allora una di queste immagini ci potremmo rendere conto dell’invisibilità completa delle immagini stazionarie.
Alcuni consigli per eseguire l’esperimento nel caso dell’immagine illustrata nella Fig. 1:
- utilizzare preferibilmente un solo occhio (per esempio il destro), coprendo con una mano l’altro.
- oltre a sforzarsi di tenere completamente immobile l’occhio, bisogna mantenere il più possibile ferma la testa. Si consiglia di sostenerla con una mano, tenendo il braccio appoggiato al tavolo su cui è situato il computer.
Se seguiremo queste indicazioni allora, dopo circa 30 secondi, l’immagine della figura (un disco piccolo più chiaro all’interno di un disco grande più scuro) si trasformerà nell’apparenza di un disco uniformemente scuro, senza differenza alcuna tra interno ed esterno della figura.
Ottenuto l’effetto, basterà muovere un po’ l’occhio (o la testa) perché l’immagine torni a riassumere il suo aspetto usuale.
Qualcuno di noi resterà pienamente convinto, sulla base di questo esperimento, dell’invisibilità delle immagini stazionarie. Altri saranno invece perplessi, o perché, a dispetto dei loro sforzi, non sono riusciti a vedere il disco diventare uniformemente scuro, o perché non saranno convinti della nostra spiegazione, considerando il risultato del nostro esperimento come l’effetto di uno strano gioco visivo senza grandi significati fisiologici.
Per vincere la diffidenza di questi scettici, noi proponiamo allora un esperimento davvero straordinario, e neppure troppo difficile da eseguire, l’esperimento dell’ “albero di Purkinje”. Oltre a dimostrarci, oltre ogni ragionevole dubbio, la validità del nostro assunto sull’invisibilità delle immagine retiniche stazionarie, questo esperimento renderà possibile una cosa davvero magica: ci permetterà di dirigere lo sguardo all’interno del nostro stesso occhio, farci vedere – senza alcun ricorso a complessi dispositivi – il fondo del nostro occhio, e in particolare la trabecolatura dei nostri vasi retinici come appare all’oculista quando ci osserva con l’oftalmoscopio (o con altre sofisticate apparecchiature).
Prima di descrivere un modo semplice per realizzare l’esperimento dell’albero di Purkinje – e allo scopo anche di arricchire il piacere di queste nostre divagazioni tra la scienza visiva e la sua storia -, parliamo dello studioso che per primo lo realizzò: il boemo Jan Evangelista Purkyně nato a Libochovice, in Boemia nel 1787 e morto a Praga nel 1869. (Figura 2). La grafia del suo cognome varia molto (egli stesso nel corso della sua vita ne contò nove diverse forme), ma di solito egli è conosciuto come Purkinje. Gli studenti di medicina e gli studiosi di fisiologia associano il suo nome a delle grosse cellule del cervelletto, caratterizzate dalla grande espansione delle loro ramificazioni nervose (cellule di Purkinje). Famose sono anche le fibre di Purkinje del cuore che fanno parte di uno speciale sistema di conduzione dell’impulso elettrico che permette un’adeguata eccitazione del muscolo cardiaco, secondo un ritmo appropriato alle funzioni cardiocircolatorie.
Per quanto riguarda la visione, il nome di Purkinje è associato in particolare alla corretta individuazione dell’origine di alcune immagini presenti nell’occhio, in corrispondenza della pupilla, e dovute alla riflessione di oggetti esterni. L’importanza di queste immagini (di Purkinje) sta nel fatto che dal loro studio è possibile stabilire correttamente il modo con cui l’occhio mette a fuoco oggetti diversi (si tratta del processo della “accomodazione” che vede in gioco soprattutto il cristallino, la “lente” dell’occhio caratterizzata dalla curvatura variabile). Tra i fenomeni visivi scoperti da Purkinje, interessante quello che riguarda la variazione della sensibilità per i colori al mutare delle condizioni di illuminazione ambientale: a intensità di luce molto deboli sono più visibili gli oggetti blu, mentre diventiamo più sensibili ai colori giallo arancio quando la luce aumenta (si tratta del cosiddetto “Purkinje shift”: è per questo che quando si avvicina la sera in un giardino i fiori rossi diventano scuri molto prima di quelli blu).
Ma veniamo all’albero di Purkinje, scoperto da Jan Evangelista nel corso di studi sistematici rivolti a stabilire la natura di immagini che si formano nel nostro occhio (e nel nostro cervello) in assenza di corrispondenti oggetti nel mondo visivo (alcune di queste immagini vengono indicate come entoptiche perché derivate dall’interno dell’occhio).
Parlando dell’esperimento di Mariotte e della sua scoperta della macchia cieca (vedi ipertesto sulla Macchia cieca), abbiamo detto delle perplessità sollevate dall’inattesa scoperta. Jean Pecquet, lo studioso a cui Mariotte comunicò la sua scoperta, disse che gli sembrava ingiustificato concludere che essa fornisse elementi contro l’idea che la retina fosse la struttura oculare responsabile della visione. Come si ricorderà, Mariotte riteneva – in accordo con la scienza del tempo – che la retina rivestisse tutta la superficie posteriore dell’occhio, e quindi anche la papilla del nervo ottico. Avendo trovato che la papilla era incapace di vedere, egli aveva dunque concluso che la retina era insensibile alla luce (aveva supposto che l’organo della visione fosse la corioide). Pecquet ribatté alle affermazioni di Mariotte dicendo che in corrispondenza della papilla ottica era verosimile che la retina fosse perforata dai numerosi vasi che la attraversavano: questo poteva, a suo parere, spiegarne l’insensibilità locale a livello della papilla. A questa osservazione Mariotte ribatté a sua volta che era ben difficile pensare che i vasi retinici potessero spiegare l’insensibilità visiva della papilla ottica; egli adduceva come argomento tra l’altro le dimensioni troppo piccole dei vasi retinici. A suo avviso i vasi retinici erano così minuti che non avrebbero potuto ostacolare in alcun modo il cammino della luce e quindi, neppure risultare quindi visibili.
Ma è proprio vero quello che pensava Mariotte a proposito delle dimensione dei vasi retinici? Sono davvero così piccoli da essere invisibili? Certamente no, visto che la retina è in grado di rilevare particolari dell’immagine che si forma su di essa dell’ordine di pochi millesimi di millimetro (molto più piccoli del diametro dei grossi tronchi vascolari della retina). E neppure si può pensare al fatto che i vasi retinici siano invisibili perché trasparenti, perché trasparenti non sono. È per questo che l’oculista può agevolmente vederli proiettando un fascio luminoso sul fondo dell’occhio a mezzo dell’oftalmoscopio (si veda la Fig. 2, tipica immagine del fondo oculare con il disco più chiaro sulla sinistra corrispondente alla papilla ottica, da cui si irradiano i grossi vasi, e, nella parte centrale, una zona più scura, la macula, luogo della massima acuità visiva).
Ma se i vasi retinici sono di dimensioni sufficientemente grandi, e abbastanza opachi da ostacolare il passaggio della luce, perché non ci accorgiamo della loro presenza, perché non ne vediamo almeno l’ombra?
La ragione è semplice (anche se sorprendente) e si ricollega al discorso che abbiamo fatto all’inizio. Noi non vediamo i nostri vasi retinici perché le loro immagini sulla retina sono completamente immobili sulla nostra retina e perché, come abbiamo detto, le immagini immobili sono invisibili.
Suggestiva spiegazione, si dirà, ma come possiamo essere sicuri della sua validità? La risposta è semplice. Basta eseguire l’esperimento pubblicato da Purkinje per la prima volta nel 1823 e che consiste nel muovere una fonte luminosa presso l’occhio in modo tale da provocare piccoli movimenti dell’ombra proiettata da questi vasi sulla nostra retina. Se è vero infatti che i vasi retinici sono invisibili perché perfettamente immobili, allora un movimento anche piccolo della loro ombra sulla retina dovrà provocarne la visibilità.
Ecco il modo per eseguire questo straordinario esperimento che ci permette davvero di guardare dentro il nostro occhio.
- Procuriamoci una fonte luminosa piccola e maneggevole del tipo delle lampadine tascabili (le più adatte sono quelle a fascio luminoso intenso e piccolo, come per esempio certe “penne luminose”, ma qualunque piccola lampadina tascabile è adatta allo scopo).
- Immaginando di eseguire l’esperimento con l’occhio destro,. mettiamoci in una stanza semibuia; tenendo la testa in posizione normale, ruotiamo l’occhio il più possibile verso sinistra in modo da lasciare sulla destra una zona molto ampia di globo oculare con la sua sclera. Teniamo coperto l’altro occhio con l’ausilio della mano sinistra.
- E’ su questa superficie che dobbiamo dirigere da distanza ravvicinata il fascio luminoso.. La rotazione dell’occhio è utile a evitare che la luce penetri attraverso la pupilla abbagliandoci.
- Facciamo oscillare rapidamente, e con movimenti piccoli, il nostro fascio luminoso ed ecco allora, vedremo magicamente delinearsi dinanzi al nostro sguardo l’immagine intricata dei nostri vasi retinici, secondo un disegno simile à quello visibile nel fondo dell’occhio osservato con l’oftalmoscopio. È l’albero di Purkinje, simile a quello osservato dallo scienziato boemo e illustrato nella Fig. 3.
Purkinje fece l’esperimento con una candela (alla sua epoca, sebbene la pila di Volta fosse stata scoperta da alcuni decenni – e precisamente nel Marzo 1800 – non erano ancora disponibili lampade tascabili). Ecco come egli descrive nel 1823 l’esperimento (uno dei tanti che egli eseguì alla ricerca delle sue immagini entoptiche:
Gli aloni di cui ho appena parlato mi permisero di scoprire un’immagine all’interno del mio occhio, sulla base della sua conformazione. La chiamerò “disegno vascolare”. Se io muovo la fiamma di una candela, tenuta alla distanza di alcuni pollici dal mio occhio destro, in diverse direzioni o anche in cerchio, ecco apparire, attraverso una luce diffusa, una trama scura di vasi sanguigni (la nostra Fig. 3) che origina dalla papilla del nervo ottico e ha due diramazioni principali verso l’alto e il basso; esse si ramificano e si piegano verso il centro del campo visivo. Nel mezzo c’è una zona circolare scura che in una condizione diversa di luce incidente può apparire come una cavità…
Anche noi, come Purkinje, utilizzando solo una semplice sorgente luminosa, riusciamo nel difficile compito di permettere al nostro occhio di vedere al suo interno, di vedere se stesso. E allo stesso tempo avremmo dimostrato al di là di ogni ragionevole dubbio che le immagini immobili sulla retina diventano invisibili.
Bisogna dire forse che, oltre della fonte luminosa, c’è stato bisogno di qualcosa di molto importante per permettere all’occhio di vedere se stesso. È stato necessario fare ricorso all’intelligenza e alla passione di quello straordinario studioso che fu Jan Evangelista Purkyně.
Ringrazio vivamente il Prof. Nicholas Wade dell’Università di Dundee (Scozia) per i suoi consigli e per aver messo a mia disposizione materiale storico utile alla redazione di questa pagina.